Xenia: ti regalo l'eternità
- Mariarita Astolfi
- 22 dic 2020
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Il fragile corpo, 𝑖𝑚𝑝𝑟𝑖𝑔𝑖𝑜𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑡𝑟𝑎 𝑏𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑒 𝑔𝑒𝑠𝑠𝑖, ha ceduto per sempre: Drusilla è andata via. Nessuna consolazione può giungere all'uomo che tanto l'ha amata, nemmeno quella di una salvezza nell' oltrecielo.
Nelle sue raccolte ci sono epifanie, prodigi e perfino una donna angelo, eppure Eugenio Montale nella dimensione ultraterrena non ci ha mai creduto.
L'essenza di Drusilla non poteva, però, andar perduta per sempre; la donna, la sua donna doveva continuare a vivere, almeno dentro la voce poetica. Una voce che, dopo un silenzio durato dieci anni, dirompeva e spiazzava i lettori per il suo inedito tono intimo, colloquiale, prosastico.
Non si trattava soltanto dell'urgenza del ricordo, della necessità di trattenere ancora a sé un amore destinato a sbriciolarsi, una volta usurati i fili della memoria.
Era ricompensa, offerta, celebrazione.
Montale sentiva di dover restituire alla donna l'amore di cui l'aveva riempito sopportando le lacerazioni dell' infedeltà.
Soprattutto, doveva renderle grazie per quel coraggio che ella gli aveva infuso, nel corso di tutta una vita, spingendolo ad andare, sempre e comunque, nonostante i drammi della storia, nonostante la coscienza che alle sue spalle vi fosse il nulla.
Quale dono migliore della poesia avrebbe potuto offrire lui, che aveva dedicato la sua intera esistenza alle lettere?

Nascevano così i 28 componimenti di Xenia (più precisamente le sezioni Xenia I e Xenia II, raccolte in Satura).
È un termine greco che indica i doni inviati a qualcuno che si è ricevuto come ospite; Drusilla, infatti, era ospite che abitava, anzi troneggiava nei giorni e nel cuore del poeta.
Montale instaura un dialogo tenerissimo con la donna, compagna d'una vita, scomparsa appena un anno dopo il loro matrimonio.
A lei si rivolge col ''tu'', come se fosse ancora accanto a lui, tangibile, concreta, terrena, come se la sua presenza lo accompagnasse in ogni momento della quotidianità.
Di verso in verso, il poeta tratteggia e restituisce il ritratto della sua donna: era un piccolo insetto o più semplicemente Mosca, il nomignolo che affettuosamente lui e gli amici le avevano affibbiato per via delle grosse e spesse lenti che indossava. Sembrava agli occhi altrui smarrita nel blabla della società, zimbello, fragile a causa della malattia alle ossa che la consumava, ma non era affatto questa la realtà.
Paradossalmente proprio lei ch'era miope vedeva meglio, anche al buio e, perciò, orientava col suo senso infallibile e col suo radar da pipistrello il cammino del poeta.
Lei, così saggia e giudiziosa, che aveva mordicchiato il mondo in dosi omeopatiche, sapeva che il moto non è diverso dalla stasi, che il vuoto è il pieno e il sereno è la più diffusa delle nubi; non le importava della vita, della vanità, né tanto meno delle cancrene universali che trasformano gli uomini in lupi.
Nei versi rimbombano fragorose le risate di Mosca, che avevano riempito con la loro sonorità gli spazi domestici della loro intimità e che persistono indimenticabili nella mente di chi resta.
Ma, più di tutto, in un mondo che si reggeva a stento sulle rovine della guerra e del dopoguerra, nel fango indistinto della mercificazione, Mosca era stata per Montale punto d'appoggio per non precipitare. Dandole il braccio, egli era in grado di scendere 𝑢𝑛 𝑚𝑖𝑙𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑠𝑐𝑎𝑙𝑒. È questa, come scrive Saba nella sua poesia ''Vecchio e giovane'', 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑢𝑜𝑟𝑒 𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑢𝑛'𝑖𝑚𝑝𝑟𝑜𝑛𝑡𝑎 𝑑𝑜𝑙𝑐𝑒: regolare il proprio passo a quello dell'altro.
Beati quegli innamorati che riescono a camminare insieme, allo stesso ritmo, con la stessa andatura, anche quando le strade sono sterrate o le scarpe troppo strette. Essi hanno saputo smussare i loro angoli per giungere ad un incastro perfetto!
Montale aveva conosciuto l'amore più forte e intenso che un essere umano possa provare e, ora che l'aveva perso, avvertiva il vuoto ad ogni passo. Un vuoto abissale, profondo, estenuante che, talvolta, nella solitudine dello studio, cercava di colmare con un fischio.
Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
Era il loro legame ultimo, il loro gesto o, meglio, suono di intesa per riconoscersi e ritrovarsi quando sarebbero stati distanti, separati dall'inevitabilità della morte.
È l'ultimo e sofferto tentativo di un uomo di riavere la sua amata, fosse anche in un solo gesto o in una sola abitudine.

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Stupendo ⚘🌺. Un inno straordinario all'amore eterno...