Una vita con la maglia a righe
- castellialfonso19
- 2 feb 2021
- Tempo di lettura: 3 min
Molte storie che conosciamo, che abbiamo letto od ascoltato, che abbiamo apprezzato e condiviso, spesso, si perdono nell’oblio.
Altrettanto spesso portano con sé un interrogativo: cosa sarebbe successo se fosse andata diversamente?
Si aprono così un mare di possibilità nella nostra mente, che viaggia pur conoscendo l’ineludibile finale . Un finale che non si può cambiare: perché non tutte le storie- infondo- hanno un lieto fine.
E la follia umana, quella dei totalitarismi e dell’Olocausto, non ha risparmiato neanche mondi che possono sembrare più ameni, meno importanti da ricordare perché non riguardano gesti nobili o eroici sacrifici ma- semplicemente- lo sport, il calcio.
Ad ogni modo, se è vero che la memoria è un muscolo che va allenato esattamente come un quadricipite, abbiamo il dovere di fare uno sforzo e considerare tutte le storie umane, nessuna esclusa.
Questa è la storia di Arpad Weisz, talentuoso calciatore ed, in seguito, brillante allenatore ungherese, di religione ebraica.
Arpad Weisz, nel suo essere uomo comune, uomo come gli altri, era un genio del calcio, un grande innovatore dello sport più amato d’Italia.
Aveva una capacità unica: quella di portare un gruppo di giocatori di modesto livello a diventare una squadra vincente, con il suo carisma innato e la sua conoscenza visionaria del gioco.
Weisz portó in Italia, dalle sponde del Danubio, un’ idea di calcio moderna e creativa, il calcio basato sul “sistema” che si contrapponeva al “metodo” italiano, tutto difesa e contropiede.
Lo fece nell’Inter, dove scovó e incoraggiò il grande talento di Giuseppe Meazza e vinse il primo campionato a girone unico nella storia del calcio italiano a soli 34 anni, il più giovane straniero di sempre a farlo.
Lo fece, soprattutto, in provincia, nel Bologna, il grande Bologna di fine anni ’30. Vinse due memorabili scudetti consecutivi che interruppero l’eterno dominio della Juve e varcó i confini nazionali, aggiudicandosi il Trofeo dell’Expo di Parigi, antesignano della moderna Champions League.
Lo conquistò impartendo, in finale, una lezione di calcio al Chelsea, nel periodo storico in cui gli inglesi, considerandosi gli inventori del gioco, si negavano spocchiosamente alle competizioni internazionali, credendo di aver solo da insegnare agli altri ciò che loro avevano inventato. Arpad diede loro una bella lezione e dimostrò che anche gli Dei, a loro volta tracotanti, prima o poi, possono cadere dall’Olimpo.

Proprio quando sembrava avere il mondo in mano, quando era conosciuto e rispettato ovunque potendo rivolgere lo sguardo verso obiettivi ancor più ambiziosi e prestigiosi, nel 1938 l’Italia fascista promulgò le ignobili leggi razziali.
Arpad era un ebreo e fu costretto a rifugiarsi con la sua famiglia, prima in Francia e poi in Olanda, dove allenò ed insegnò calcio: la passione era più forte dell’odio. Nel ’42, inevitabilmente, la famiglia Weisz fu arrestata e finì nei campi di concentramento della Polonia. Avrebbero forse potuto salvarsi: Arpad, stimato allenatore ed uomo di calcio, aveva certamente conoscenze in Sudamerica, dove sarebbero stati felici di accogliere lui, sua moglie e i suoi bambini, lontani anni luce dalla follia nazista.
Eppure, rimase in Europa: non pensava, non aveva mai accettato veramente che la follia umana si sarebbe spinta a tal punto. Chiuse gli occhi, in un anelito di fiducia nell’umanità, e fece ciò per cui era venuto al mondo: allenare il calcio.
Morì nelle camere a gas, perché l’odio nazista non conosce privilegi, tantomeno squadre di calcio.

Ma la sua storia ci ricorda, anche oggi, che se una generazione intera non avesse chiuso gli occhi, consegnandosi all’ignominia totalitaria, staremmo narrando di tante storie a lieto fine, celebrando quello che- probabilmente- sarebbe stato il più grande allenatore della storia.
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Riferimenti:
Matteo Marani- Dallo scudetto ad Auschwitz
Federico Buffa- Federico Buffa racconta Arpad Weisz

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