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PER FARE UN ALBERO CI VUOLE UN FIORE

''Le  cose di ogni giorno raccontano segreti a chi le sa ascoltare''.

Benvenuto in ''Per fare un albero ci vuole un fiore'', un progetto che nasce dall'incontro tra la passione per la letteratura e l'amore per l'arte di Mariarita e l'occhio sensibile e osservatore di Andreana. Ricco di contenuti interessanti ed esclusivi, il blog vuole essere uno scrigno dove gettare e condividere i nostri "lampi di mania."  Ci auguriamo che "Per fare un albero ci vuole un fiore" possa accendere anche la tua passione. 

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Michelangelo Buonarroti (1475 – 1564), l’inquietudine che suscita la Bellezza.

Nato il 6 marzo 1475 a Caprese, Michelangelo è ricordato come una delle più indiscusse personalità geniali del Rinascimento. Fin da giovanissimo, quando si formò presso la bottega di Domenico Ghirlandaio, l’artista fu ossessionato dall’idea di voler imitare, attraverso l’arte, la natura, in quanto solo l’indagine meticolosa della natura avrebbe potuto consentire all’uomo di arrivare alla Bellezza. La perfezione del corpo umano, specchio della bellezza divina, è inizialmente per il Buonarroti quanto di più bello ci sia nel creato. Disegna e realizza così opere in cui l’anatomia dei corpi è curata nei minimi dettagli, dove i muscoli sembrano contrarsi sotto gli occhi dello spettatore, esterrefatto ed immobile dinanzi a tanto splendore.



Nella “Pietà” di San Pietro, la Vergine è una fanciulla con il volto coperto da una lieve tristezza, che sorregge, docilmente, il corpo, altrettanto giovane, del figlio. La contemplazione di essere giovani e senza imperfezioni è il riflesso della purezza divina, che con lui si materializza, acquisendo immagine e forma. D’altronde, per Michelangelo, figlio della filosofia neoplatonica, il blocco di marmo informe contiene già l’Idea: ciò che, potenzialmente, lo scultore sarà, poi, capace di trarne. Il marmo con lui prende vita, si umanizza, diventa carne viva, a tal punto da suscitargli inquietudine e turbamento, disorientamento e sgomento.

Divenuto profondamente religioso, ormai stravolto dal clima controriformistico, arriva al punto di non ritorno di convincersi che la bellezza esteriore distolga l’uomo dalla spiritualità. E così che , travolto da mostri interiori, frutto di timori ossessivi, la perfezione del corpo umano, prima vista come riflesso di Dio, diviene, sotto la coltre della sua Chiesa, fonte di peccato e perdizione, minaccia asfissiante della dannazione dell’anima, paura soffocante, tradotta, tutta, nel “Giudizio Universale”.



Qui l’artista dimostra di non cercare più la bellezza ideale, ma di voler indagare il senso tragico del destino dell’uomo. Qui non c’è né sollievo né gioia nemmeno nei volti dei salvati, ma solo il terrore, cupo ed oscuro, nell’aggrovigliarsi dei dannati. L’affresco diventa così il simbolo dell’anima tormentata di un genio, vittima delle sue grandiose capacità, incatenato dall’inquietudine della sua Bellezza.


©Riroduzione riservata

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