La mente criminale: identità territoriale e luoghi comuni.
- Mariarita Astolfi
- 4 mag 2020
- Tempo di lettura: 2 min
Nel corso del secolare processo di elaborazione, organizzazione ed enciclopedizzazione della propria cultura, l'individuo ha avvertito la necessità di costruirsi modelli e punti di riferimento, per meglio identificarsi e districarsi nella selva delle tradizioni, dei costumi e delle conoscenze. Molto spesso, però, la codificazione di un'identità culturale ha comportato lo sviluppo di stereotipi che, complici fattori ambientali, storici, politici, ma anche studi e teorie pseudoscientifiche e filosofiche, si sono consolidati e radicati, tramandandosi alle generazioni odierne.
In realtà, gli stereotipi risultano essere una sorta di scorciatoia che ci evita la fatica di dover ricercare e conoscere in profondità tutte le persone che incontriamo, per una specie di "economia cognitiva ".
Tra i tanti preconcetti che costellano il nostro orizzonte mentale, quello che ci riguarda più da vicino e che, ancora oggi, è capace di suscitare indignazione ma anche adesione, è la disuguaglianza tra il Nord e il Sud, l'affermazione della presunta inferiorità di quest'ultimo rispetto al primo.
La nascita e lo sviluppo dei luoghi comuni sul Meridione ha origini veramente lontane nel tempo. Se negli scritti del periodo risorgimentale, si era prestata relativamente poca attenzione alle differenze tra le varie regioni, la letteratura sul carattere, successiva all'unificazione d'Italia, riservò loro una trattazione più ampia. In seguito, dalla metà del decennio successivo, si aprì il dibattito sulla "questione meridionale", tematizzandola in maniera esplicita e ampliando la dicotomia Settentrione-Meridione.
A tale proposito è necessario tener conto degli studi di Cesare Lombroso, padre della criminologia. Il suo metodo di classificazione è stato per molto tempo lo strumento principale per tratteggiare il profilo dei delinquenti.
I criminali sono tali per nascita: sulla scia della fisiognomica, Lambroso sosteneva che essi fossero fisicamente diversi dall'uomo "normale" in quanto portatori di anomalie e di avatismi determinanti attitudini socialmente devianti. Dunque, come emerge dal singolare studio sui crani, il delinquente si distingueva per caratteristiche fisiche particolari, quali : grandi mandibole, naso schiacciato, zigomi sporgenti, canini forti. Il criminale-nato è il segnale di una degenerazione atavica come lo sono i selvaggi, e come lo sono gli abitanti del meridione, irrimediabilmente condannati dall'inferiorità biologica. Non è un caso, allora, che Lombroso abbia elaborato la sua teoria su Giuseppe Villella, bandito calabrese della seconda metà dell'800: nella fossetta occipitale mediana dell'uomo, Lombroso volle vedere la prova inconfutabile del carattere del delinquente nato.
Dopo il Lombroso, altri autori, seppur con minore fortuna, hanno affermato l'importanza dei fattori bio-antropologici nello studio della criminalità; altri, invece, si sono impegnati per confutare tali tesi.
Oggi, a quasi un secolo dalla morte del padre della criminologia, i suoi studi sono stati superati; ad essi si riconosce un valore prettamente storico. La scienza ha compiuto i suoi progressi, dimostrando l'inefficienza e l'infondatezza delle teorie di chi ricercava nell'origine, nella provenienza geografica l'indizio principe della malvagità o, comunque dell'inferiorità. Eppure, mentre la ricerca e la società avanzano speditamente, molti uomini, nell' inarrestabile Fiumana del Progresso, rimangono indietro, ottenebrati dai più assurdi e futili pregiudizi e stereotipi.

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