Firenze, 1515
- Andreana Caruso
- 11 mag 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Ho attraversato il centro della città. La vita è frenetica. La cupola di Brunelleschi già veglia su Firenze. Il popolo non è ricco ma vi è tanta speranza nel mondo futuro, grazie all'enorme riconoscenza verso quello passato.
Aspetto tra il Palazzo e gli Uffizi per presiedere alla cerimonia. Non sono ancora riuscita a varcare il portone quando alle mie spalle attraversa il viale Niccolò: muso imbronciato, sguardo distratto, troppo pensieroso. È bastata una piccola folata di vento a tirargli dalle mani quei fogli già disordinati. E ora, ancor più sparpagliati, toccano le strade di questa città. Mi avvicino per aiutarlo a raccogliere quelle bozze confuse. Sento la storia nelle mie mani.
“Di cosa si tratta?”, di getto domando.
Di scatto si gira quasi a chiedere “Maremma! E lei da dove sbuca?”
“Non volevo essere indiscreta ma sento che sarà qualcosa di importante. ”
In generale, gli uomini giudicano più con gli occhi che con le mani, perché tocca a vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei…
Provo a farmi Sentire ancora, questa volta scrivendo una Commedia.
La storia si svolge qui, avviene qualche anno fa. Callimaco è innamorato di Lucrezia, moglie dello sciocco dottore in legge Messer Nicia. Con l'aiuto del servo Siro e dell'astuto amico Ligurio, Callimaco, in veste di famoso medico, riesce a convincere messer Nicia che l'unico modo per avere figli sia di somministrare a sua moglie una pozione di mandragola, ma il primo che avrà rapporti con lei morirà…
Poi prende uno dei fogli che abbiamo raccolto e mi legge un pezzetto di quelle parole che sembravano il progetto disordinato di un palazzo ancor tutto da costruire: “L’abilità di Ligurio in questo colloquio è nel fingersi meno esperto e più ignorante di lui…”
Ritorna lo sguardo distolto, troppo pensoso e, dimentico della mia presenza, va via, come se inseguisse una farfalla che vola lontano. Occorre un barattolo per intrappolarla. Forse era un’idea!

Anche io vengo catturata velocemente dalla vista di una bottega. Distratta e incuriosita, provo ad entrare.
La porta è aperta. Chiedo se c’è qualcuno ma nessuno mi risponde. Osservo allora in quel piccolo e confuso laboratorio quei quadri che lì erano stati terminati: Donna Gravida, Agnolo Doni, Maddalena Strozzi, Dama con Liocorno. Ritratti a mezzo Busto di una Firenze di un decennio fa. Emergono i dati introspettivi e la psiche di chi, forse inconsapevolmente, è stato immortalato su queste tele eterne.

Arriva un uomo con a seguito una sontuosa carrozza. Mi affaccio.
Robusto e di bell'aspetto. Occhi astuti, corpo agile. Con eleganza e raffinatezza scende dal cavallo.
Apre la porta della carrozza e porge la mano ad una donna, dopo di lei prende in braccio un bambino, di circa 5 anni. E ancora scende un’altra donna, più anziana, dallo sguardo riverente. Costei sbuffa, seppur molto diplomaticamente, quando l’uomo con accuratezza sistema i cavalli. “Alessandro”, chiamano il bambino, anch'egli molto composto.
La città sembra essersi fermata. Odo il chiacchiericcio di un gruppo di popolani, che di là passava, “che poi nun è nemmeno il sù figliolo! l'è d'i cugino Giulio. Un Futuro Duca che manco un padre certo ha”, dice l’uno.
“Certo lui però che pazienza con la madre! Guardala per forza acculturato lo vuole il figlio, ma il Signore pensa a donne, levrieri e cavalli. Ebbe coraggio quell'amico tuo, qualche anno fa quando rispose a quel Mercante che lo voleva acclamare come il su nonno,“il Magnifico”, il “Magnifico di Merda” gli correggeva. Ma poi l'è più tornato in città?”
“Dio Bono! l'è ancora in esilio. Mancano 6 anni”

Era lorenzo di Piero de medici, nipote di Lorenzo il Magnifico.
“Lorenzino” pretendeva riverenza e smaniava di figurare primo nelle cerimonie, nelle feste carnevalizie, nelle giostre, nei festeggiamenti del santo patrono.
Lo zio pontefice, cosi come la madre, provavano a frenarlo, paventandone gli eccessi.
Vigeva per Lorenzo il criterio di "non forzar donne", di "non impedir iustitia", di "tener le mani nette de' denari del Comune": il minimo, insomma, perché la città, pur pesantemente condizionata, accettasse, senza reagire, la subordinazione alla sua volontà. Pochi mesi fa gli è stato conferito il capitanato generale dei “fiorentini con 250 uomini d’arme”.
Oggi, nella “mostra delle gienti d’arme” v’è la consegna del “bastone”.
Nonostante i soliti chiacchiericci infamanti del popolo, i più sono fiduciosi. Si dice che nel Consiglio dei Settanta con umiltà Lorenzino abbia voluto sottolineare che per questo titolo, (per il quale si è autocandidato) non pretenderà “né genti né denari”.
Proprio a lui, Nicolò, dopo la morte dello zio Giuliano De Medici, ha deciso di dedicare il Principe. Certo il popolo un po' ne ride, perché si racconta che Lorenzo nemmeno l’abbia letto. Qualcuno fa notare che, di fatti, nessuna riconoscenza è giunta allo scrittore da casa Medici. Mai un lavoro per lui, mai un onore.
Eppure, ora si mormora che la commedia che sta scrivendo sia, ancora una volta, uno scritto per compiacere il “virtuoso Signore di Firenze”.
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